Fuoribordo, una pubblicità Evinrude degli anni 80

Fuoribordo, una pubblicità Evinrude degli anni 80

Fuoribordo, il motore marino più diffuso: la ruota della nautica

Editoriale

25/05/2018 - 21:31

Ci sono capitate tra le mani alcune statistiche relative agli anni 70 che registravano le vendite annue in Italia di motori fuoribordo: circa quarantamila unità.

Ci è venuta quindi la curiosità di indagare sul perché il mercato attuale sia solamente di un quarto, ed abbiamo costruito l’andamento dal 1986 ad oggi nel diagramma che compare in apertura. Si tratta essenzialmente di quattro curve che rappresentano anno per anno il numero totale venduto in Italia (grigio), suddiviso in potenze fino a 20 CV (blu) ed oltre 20 CV (rosso): la curva gialla rappresenta invece il numero di motori a due tempi. Abbiamo omesso per semplicità il numero dei motori a quattro tempi (che d’altronde si può ricavare per differenza dal totale): questo numero è praticamente zero fino al 1990 ed è praticamente corrispondente al totale a partire dal 2013.

Ma, prima di discutere i dati, occorrerà fare qualche considerazione sul motore fuoribordo, sulla sua storia, e sulla sua importanza nella nautica da diporto, che abbiamo sintetizzato nel titolo.

Quando Ole Evinrude inventò nel 1909 il fuoribordo, forse non si rese conto che la sua era una grande idea, quasi come la ruota nel campo dei trasporti. Ci sono poche cose che l’uomo ha inventato senza derivarle da quello che esiste in natura: ed in natura non esiste la ruota, come la corrente alternata, le onde radio, e non esiste nemmeno un mezzo propulsivo animale che possa essere spostato da un corpo ad un altro, come si può fare con il fuoribordo. Dopo la nascita il fuoribordo si diffonde dapprima nell’America del nord, ma bisogna aspettare fino agli anni trenta per avere uno sviluppo importante: succede con l’incontro con il ciclo a due tempi. Il motore a due tempi aspirato è una meraviglia della tecnica: di una semplicità essenziale, uno scoppio ad ogni giro, senza valvole o parti aggiuntive in movimento, con un lubrificante disciolto nel carburante che può essere alimentato in caduta da un serbatoio incluso nel motore, compatto, leggero, trasportabile in qualsiasi posizione, con una erogazione di potenza elevata a parità di cilindrata, e, soprattutto, economico sia nell’acquisto che nella gestione.

In poco tempo il due tempi guadagna spazi importanti nei fuoribordo come nei motocicli: quando, a partire dagli anni 50, l’Europa esce dalle strettoie economiche della seconda guerra mondiale, è solo grazie al fuoribordo che prende piede una nautica popolare, uscita dai confini che vedevano il diporto nautico limitato a pochi “ricchi”. Nascono aziende europee come Carniti e Selva in Italia, VolvoPenta in Svezia, Tomos in Yugoslavia a cercare di contrastare lo strapotere delle americane Evinrude-Johnson e Mercury-Mariner. Si sviluppa il mercato dei battelli pneumatici, che possono avvalersi di potenze limitate per ottenere buone prestazioni, e così il mercato si accresce arrivando a pesare oltre quarantamila unità vendute in Italia, il più forte mercato europeo seguito da quello dei paesi scandinavi. Come si può notare dal grafico, l’andamento del mercato totale ricopia quasi interamente quello delle piccole unità inferiori ai 20 cv che vanno ad equipaggiare piccole imbarcazioni o gommoni e che consentono la diffusione del diporto, anche perché le piccole potenze non richiedono patente e quindi svincolano da pastoie burocratiche in genere noiose e mal tollerate. E il diporto prospera.

I guai cominciano negli anni 90, quando si comincia a spargere la voce che il fuoribordo a due tempi inquina e quando i fondamentalisti dell’ecologia, decidono di colpirlo mortalmente con leggi e regolamenti che uccidono senza ragione, con il fuoribordo, anche il piccolo diporto nautico, quello che alimenta la passione del mare proprio perché rende possibile l’accesso, ad una componente del tempo libero di piccola entità e di piccolo raggio, praticamente a tutti.

Abbiamo cercato di lottare contro queste norme, sia a livello europeo che a quello internazionale, ma non c’è stato verso di far capire ai soloni delle direttive che non era prendendosela con il fuoribordo che si sarebbe risolto il problema ambientale: che, tra l’altro, non si è nemmeno accorto di qualche piccolo giovamento, tanto piccolo da essere paragonabile ad una sigaretta accesa all’interno di un grosso incendio.

In Europa un fuoribordo viene usato un centinaio di ore all’anno mentre i motocicli e le auto camminano tutto l’anno: ma si è colpito il fuoribordo, e si sono costrette centinaia di aziende a cambiare prodotti e strategie. A cavallo del millennio molte aziende sono andate a gambe all’aria, molte hanno vissuto momenti difficili e cambi di proprietà, e l’integrazione del quattro tempi ha reso i motori più costosi, più pesanti e di impiego meno pratico, quindi finalmente meno venduti.

Se andiamo a guardare statistiche del 1996, quando praticamente il due tempi era tutto il fuoribordo, troviamo ben quindici motori fino a sette cavalli che pesano meno di venti chilogrammi. Oggigiorno a restare sotto i venti chili sono solo le unità più piccole della gamma a quattro tempi.

Osservando il diagramma della figura è immediato rendersi conto che l’andamento della numerosità segue quello del due tempi e quello dei piccoli motori dagli anni 90 fino al primo decennio del nuovo millennio, offrendoci una chiara indicazione del disastro che hanno creato scelte allucinanti: e troppo spesso, come oggi accade, i risultati negativi si avvertono in tempi che non consentono la punizione dei colpevoli.

Certo, la nautica non è morta, anzi negli ultimi quattro anni ha dato segno di una ripresa che speriamo continui. Certo, ci sono state anche le crisi economiche che hanno fatto prevalere bisogni più essenziali e prioritari. Certo, la dissennata politica dei parchi marini ha tolto senza ragione e senza discrimine, spazi importanti al diporto nautico. Certo, le leggi ed i regolamenti hanno creato pastoie burocratiche invece che favorire la qualità della vita. Ma c’è ancora la voglia di andare per mare, anche se ci viene di pensare ogni tanto a quanto potremmo stare meglio se, tornando alla condizione dei primi anni novanta, potessimo ogni giorno di estate tirar fuori da sotto il letto il nostro fuoribordo a due tempi, caricarlo con una sola mano nel portabagagli insieme al gommoncino, ed alla prima spiaggia o caletta armare tutto ed andare a portare a spasso i nostri bambini facendoli guazzare nell’acqua bassa.

A contendersi il mercato internazionale del fuoribordo sono attualmente solo sette marche: una sola, europea, è l’italiana Selva; due americane, la canadese Evinrude e la statunitense Mercury; quattro giapponesi, Honda, Suzuki, Tohatsu e Yamaha.

I fuoribordo che si vendono oggi in Italia sono solo circa 15.000, equamente distribuiti tra le piccole e le grandi potenze tra le quali troviamo ancora qualche pesante e costoso due tempi a iniezione diretta.

Ma i piccoli sono pochi, troppo pochi, e senza essere piccoli non si può crescere e diventare grandi: vorremmo essere cattivi profeti!

Alfredo Gennaro

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