Nuove barche: il marketing decide davvero le tendenze del mercato nautico?

Editoriale

14/02/2025 - 08:09

Dopo gli interventi di Massimo Franchini, Giacomo Giulietti e Michele Ansaloni, è ora la volta del giornalista Roberto Franzoni a prendere la parola sul dibattito riguardante l’evoluzione dello yachting e la responsabilità del marketing. Il suo punto di vista è lucido e disincantato, a tratti provocatorio, ma senza dubbio è un'opinione che stimola la riflessione, tutta da leggere.

"Leggo con entusiasmo, passione, curiosità e interesse lo scambio di vedute e di pensieri di Massimo Franchini, Giacomo Giulietti e Michele Ansaloni sul tema “evoluzione dello yachting”, e “responsabilità del marketing”, pubblicato in questi giorni su PressMare. Ho la più grande stima per tutti loro.

“Evoluzione dello yachting”. Come continua a sottolineare il professor Umberto Galimberti la nostra è l’epoca della tecnica, che governa tutte le nostre azioni, anche quelle creative. Infatti chi usa più la matita? Gli yacht designer, dai 90 ai 20 anni usano solo software, dal più comune Rhino all’Autocad. Omologante? Direi… D’altronde tutti i prodotti recenti, diciamo degli ultimi 30 anni, sono omologati. Siete entrati da Trony e avete fatto paragoni tra le decine di lavatrici, le decine di frigoriferi, di aspirapolveri, tostapane e ultimamente air fryer, ovvero un fornetto ad aria calda che non frigge niente ma al più riscalda a temperatura corretta dei surgelati, epigono ed evoluzione del fornetto a microonde? Riuscite a cogliere le differenze a parte il prezzo e la forma delle maniglie?

Avete camminato in un parcheggio confrontando fra loro auto classe B (la A non esiste più…), C, D, Cabrio, Suv, Station Wagon? A parte il logo del marchio, vedete differenze?

Le barche non sono sfuggite a questa livellante omologazione. Le barche a vela forse di più, assolutamente indistinguibili un marchio dall’altro. Va un po’ meglio col motore, almeno in certe fasce, diciamo il fly tra 15 e 25 metri (ma non certo nella fascia open 10 20 metri walkaround), dove qualche guizzo fantastico c’è e normalmente è stigmatizzato come “brutto”. Dentro governa la ditta Alpi coi suoi legni composti, tutti col rigatino orizzontale, di tono chiaro, neutro, buono per tutti i gusti e tutte le latitudini, accompagnato da stoffe color sabbia, tortora, grigino. Colpa del marketing? Degli archistar? Del commerciale? Dell’imprenditore che non vuole/può rischiare niente e deve omologarsi a un gusto medio. Inventato da chi? Mah… chi lo sa… è come chiedere chi ha inventato la ruota. Sicuramente un mercato che per i produttori italiani è al 93/95 % all’estero, di che parametri deve tener conto? Del gusto del commendator Brambilla e della sua opulenta signora? O di quello del dottor Bianchi, commercialista scapolo impenitente alla caccia costante di pollastrelle da “cucinare” a bordo? O del ragionier Rossi dirigente dell’Unicredit con un buon reddito e qualche extra originale che vuole far provare l’ebbrezza del mare aperto ai suoi figli adolescenti, che invece sognano solo di andare in discoteca?

Queste barche sono spedite in Europa, nord, centro sud ed est, nelle Americhe nord, e centro, qualcuna in Asia, a gente dai gusti sconosciuti, incomprensibili, mai dichiarati. Massimo, Giacomo, di che inchieste di mercato parlate? Quali? Fatte da chi? Dove? A Sanremo Portosole? A Cala Galera? A Porto San Giorgio? Non le ha mai fatte nessuno e se mai le avessero fatte a che servirebbero? A capire il 5/7% del mercato? L’unica persona che io conosca che ha fatto “inchieste” (non ricerche di mercato) tra i clienti ai saloni è Giuseppe Giuliani, che chiede ai visitatori dello stand (e solo a quelli) che cosa piace loro della barca, cosa non piace e cosa leggono. Ma dalla sua inchiesta risulta che nessuno dei suoi clienti frequenta internet… (???) E chi va a Chihuahua, a Newport, a Medemblick, a Southampton, a Phuket, a Dubai a capire che cosa vorrebbero quei misteriosi clienti? L’unico link è il dealer locale, il floridiano, il messicano, il Simpson Marine asiatico, il crucco del mare del nord che ha una relazione diretta col cliente misterioso e riporta dei vaghi orientamenti. Il commerciale è l’unico driver (non drive Massimo) che si confronta col pensiero del Padrone, che è il vero driver della produzione, dei modelli, delle scelte di ogni dettaglio. Macché marketing, macché archistar, asserviti alle indicazioni del direttore commerciale, che ha raccolto i confusi pareri dei dealer nazionali e mondiali e soprattutto sta assecondando l’”Idea” del padrone.

Io ho fatto il CMO, Chief Marketing Officer Strategico di Sanlorenzo per due anni. Mi sono occupato di biglietti di auguri di Natale, di panettoni, di décor degli stand, di fiori, di feste, di conferenze stampa ai saloni, di catering per le stesse, di gift per i giornalisti… Ma era giusto, perché io di marketing non capisco una cippa lippa di niente. Sono un architetto, un navigatore, un velista d’alto bordo, un giornalista… (oddìo, giornalista…), uno scrittore. Sono grato a Massimo Perotti per l’opportunità che mi ha offerto. Un’esperienza importante per capire meglio le dinamiche di un’azienda. Ma i vari impiegati nei vari uffici marketing dei cantieri, anche dei cantieroni, sono o come me o peggio di me. Brave ragazze e ragazzi, che non hanno studiato marketing nelle università americane, le uniche dove è stato scientificizzato un metodo per convincere la casalinga di Voghera a comperare il Dash, non solo perché lava più bianco, ma perché dà in più in omaggio il Fustone, che poi, una volta svuotato della magica polvere detersiva, “fa da pouf e da cestone”. Il marketing è questo. Nel 2000, anno di svolta millenaria, il compianto Paolo Vitelli mi invitò a pranzo ad Avigliana per offrirmi il prestigioso ruolo di Direttore Marketing dell’Azimut. Apprezzai il pranzo con vista sulla Sacra di San Michele all’imbocco della Val di Susa, che ispirò Umberto Eco per delle scene de “In Nome della Rosa”, ma cortesemente rifiutati l’incarico, per cosciente incompetenza della materia e per la convinzione che il marketing serve ai prodotti di mass production, ma che un sofisticato ed elitarissimo (e inutile, come dice Massimo) prodotto come una barca da diporto, lascia perdere quanto grande, abbia bisogno di comunicazione e di una rete vendita capillare, agguerrita, competente e capace di capire i pochi, pochissimi clienti che interagiscono con essa.

Vi saluto con quest’ultima considerazione. Il mercato è saturo. In più il nostro bene non ha né vita programmata, come l’elettronica, il bianco (elettrodomestici) e in misura leggermente minore l’automotive. Noi vediamo le flotte stratificarsi di anno in anno, i porti ingolfarsi (anche quelli che non stanno in un golfo) di barche e un marina è una rassegna di storia della nautica, dal gozzo in legno al superyacht in metallo, dagli anni 50 a oggi. Come può un mercato del genere espandersi? E i prezzi? Il popolare 9 metri a vela polacco Maxus 31 presentato a Düsseldorf costa 106mila € + Iva. Finito in acqua, con tutti gli accessori e le dotazioni di sicurezza supera i 150k. A chi è rivolto? Chi è il signor Rossi, il Mr Dupont, l’Herr Schmidt, il Mr Smith, il Señor Hernandez che si cucca un barchino oggi ritenuto meno di un entry level a 150k? Quando il Solaris 57 del mio amico Sergio, del 1990, perfetto, tenuto maniacalmente, con tutte le sartie nuove, il motore tagliandato e le vele con poche miglia è stato venduto a 90k? Vero Massimo? E se per un motoscafo da bagno da 15 metri ci vogliono 1,5 milioni (non smentitemi per favore…) come può fare un cantiere, un’azienda a sopravvivere in una contingenza di domanda decrescente, di prezzi delle materie prime crescenti, di lavoro qualificato scarseggiante (si trovano in abbondanza solo giovani laureati in design nautico e ingegneria nautica …) come fa se non buttando fuori ogni anno un modello nuovo “stimolante” (che in una nota pubblicità di un prodotto intimo era “stimolante per lei e ritardante per lui…) per un mercato sempre più rarefatto?

I clienti che “amavano il mare”, per passione, per competenza, e per esperienza o sono ottantenni o per lo più sono morti. E non sostituiti da altri con le stesse caratteristiche. Che invece apprezzano le superfettazioni ipertrofiche, i pozzetti sconfinati dove non c’è un tientibene né un poggiapiedi per quando la barca è sbandata (e queste sbandano 20° al minimo soffio di vento per appoggiarsi alle estese superfici poppiere) e adorano i fianchi e le poppe apribili che formano “la più ampia Beach Area della categoria”. A cui manca solo la sabbia per sentirsi nel comfort caldo e polveroso della mai dimenticata spiaggia.

A questo scenario aggiungo la recente piaga dell’overtourism, che riguarda anche la nautica, affetta da una stagionalità ristretta e da mete numericamente limitate, per mancanza di fantasia, di coraggio di curiosità. Un recentissimo report di Fabio Pozzo afferma: “La Sardegna s’accorge della nautica, un’analisi per una nuova rotta. L’Università di Sassari elabora uno studio sullo yachting e sui porti dell’isola. Il settore, indotto e servizi inclusi, ha generato 15 milioni di euro nel 2023. “Ma si può fare di più”. Nel 2024 lungo le sue coste hanno transitato 1.385 yacht”.

Il risultato è questo:

Ma non preoccupatevi. “Si può fare di più…”. Ad Maiora!

Roberto Beppe Franzoni

A questo link il successivo intervento di Angelo Colombo

©PressMare - riproduzione riservata

PREVIOS POST
Stefano de Vivo nuovo socio di WOSA Yacht Refit, ne diventa presidente
NEXT POST
Navamarine per la prima volta al MIBS, poi ai saloni di Istanbul e Porto Rotondo